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"L' invettiva di Foscolo"

L’invettiva del poeta contro l’Italia mancata

Le colpe della cultura. L’occasione perduta di Milano

Introduzione all’ Hypercalypseos di Ugo Foscolo    

Ipercalisse: è una satira contro gli uomini dotti d'Italia, i quali, facendo mercato del sapere e della verità, corruppero le lettere italiane. L'ambizione e gli errori di Napoleone alimentarono tutto ciò. In essa si adombrano i costumi e le tristi passioni di siffatti uomini di cultura e la vera natura di alcuni di essi, perché si intenda che le calamità delle cose successe in Europa e della servitù dell’Italia nacquero dalle menzogne dei letterati divulgate per la temporanea utilità del potere.

Non facciamoci ingannare dal linguaggio ricercato. Tentiamo una parafrasi - piuttosto libera, intendiamoci. Se, negli anni successivi alla Rivoluzione francese, abbiamo mancato l’occasione di costruire una nazione, una nazione moderna, lo si deve certo alle ambizioni imperiali di Napoleone e ai suoi errori politici, ma una responsabilità non piccola ricade sui ceti colti, sugli intellettuali italiani. Su quelli lombardi, milanesi, in particolare. Opportunisti e servili, incapaci di dare forma ad un’idea di nazione e di rendersi interpreti dell’ethos popolare. L’appuntamento – allora come in seguito – non fu rispettato anche per le colpe di un ceto di uomini dotti i quali preferirono scambiare i privilegi del proprio status con l’adulazione nei confronti degli occupanti.

Esagerazioni? Espressioni eccessive di un malanimo dettato dal tragico destino personale di un uomo sconfitto, costretto all’esilio? Forse. Ma, pure con il suo tono paludato e con il suo tentativo un po’ monotono di ricalcare gli schemi della letteratura biblica, con l’acredine a volte fastidiosa verso i nemici personali dell’Autore, questa operetta ha il pregio di cogliere una novità straordinaria: l’esordio della “politica culturale” come strumento di propaganda, come mezzo per la costruzione del consenso. Non è stato forse Napoleone a “inventare” un logo che promuovesse la sua immagine persino dai cristalli di un bicchiere o da una zuppiera? Non ha forse curato personalmente la propria iconografia? Non ha messo il suo entourage un impegno particolare a creare e a diffondere uno stile congeniale all’epoca che intendeva plasmare? Certo, lui, figlio della piccola nobiltà corsa, senza il pedigree della vecchia aristocrazia, senza il titolo derivante da una discendenza regia, senza poter accampare alcun diritto divino come legittimazione del proprio potere, sapeva che il consenso ha bisogno di un’egemonia culturale. Che la cultura è fatta di apparati, di mezzi, al limite, di prebende, di corruttela. E c’è sempre, ieri come oggi, qualcuno che fa la fila per correre in soccorso ai vincitori. Lo sa bene Foscolo: l’idealista, il soldato al servizio di Napoleone fino all’ultimo tentativo di resistere; l’intellettuale indipendente. Il poeta che anticipa la temperie risorgimentale costruendo un pantheon della memoria fatto di uomini illustri, di Italiani senza patria. Che preferisce elogiare i morti piuttosto che i vivi.

Chi scrive è un uomo di soli trentotto anni, sul quale pesano una biografia concitata, intensa, e il senso di un fallimento, esistenziale e politico. Un esule in fuga verso il Paese in cui, dopo un decennio, avrebbe trovato la morte.

Hypercalypseos è l’espressione più dolorosa dello sdegno per l’occasione mancata di trasformare l’Italia in una nazione negli anni della Rivoluzione. E’ uno spaccato realistico e amaro delle classi

dirigenti di una Milano capitale per poco, di una capitale potenziale ma incapace di incaricarsi del compito di risollevare le sorti politiche del Paese.

Ma Hypercalypseos è anche è l’emblema dell’anacronismo.  Porta la finta indicazione di Pisa 1815, ma vide la luce a Zurigo nel 1816, quando i fenomeni di asservimento e di corruzione dei letterati e delle classi dirigenti italiane nei confronti di Napoleone al centro della denuncia  apparivano ormai come memorie del passato. La sua incubazione era iniziata durante il soggiorno del poeta a Milano, nel 1810, ma si era protratta così a lungo da superare i limiti temporali dell’età napoleonica. Evidentemente, però, l’autore riteneva che, al di là dei riferimenti contingenti, l’opera contenesse una lezione dal  significato permanente. Le polemiche, aspre e radicali, nei confronti dei propri avversari di qualche anno prima  offrivano a Foscolo  il destro per esplicitare una visione strutturale dei rapporti tra cultura e politica, per sostenere un punto di vista risentito e profetico sulla necessità, per gli studiosi, di difendere la loro indipendenza, facendo della povertà, del disinteresse, lo stigma della professione intellettuale.

Transitando per la Svizzera,  l’autore aveva ormai  iniziato  la via crucis dell’esilio,  dopo la fine traumatica dell’esperienza napoleonica. Un esito paradossale per un poeta che aveva contrastato la trasformazione dell’epos rivoluzionario in regime ma che, al tempo stesso,  aveva pur sempre servito, da soldato, la potenza francese.

Il libretto fu stampato in due edizioni: la prima, di novantadue esemplari, fu destinata alla vendita; la seconda, di sole dodici copie, era invece riservata agli amici e recava la dedica all’amico inglese William Stuart Rose, ambasciatore inglese a Berna, l’uomo che consentirà a Foscolo di ottenere il passaporto britannico e di sottrarsi in questo modo alle pressanti richieste di estradizione da parte del Governo austriaco. Quest’ultima edizione era corredata da una Clavis, fondamentale per decifrare i riferimenti ai personaggi e alle circostanze citati e chiarire i punti oscuri della narrazione.

Il titolo completo dell’operetta, scritta in Latino, era Didymi Clerici Prophetae minimi Hypercalypseos liber singularis. Il titolo Hypercalypseos utilizza  un’espressione in lingua  greca. Il suo significato, “iper-ascondimento”, richiama, con significato opposto, l’Apocalisse, e dell’opera giovannea imita lo stile, biblico e visionario, come si conviene ad un’opera che si vuole scritta da un chierico. L’impostazione stilistica è  volta a conferire una particolare solennità alla visione. La struttura è costituita da tre parti: un’epistola che fa da  prefazione, la visione, e la Clavis. In esso, Foscolo faceva ricorso ad uno pseudonimo già utilizzato per la traduzione di Sterne.  

La finzione letteraria utilizzata presenta delle analogie con quella sperimentata nell’ Ortis. Foscolo ricorre ancora una volta al personaggio di Lorenzo Alderani, già corrispondente di Jacopo e qui depositario invece del pamphlet inviato a William Stuart Rose. E’ a lui che viene affidato, fin dalle prime righe,  la denuncia che sta all’origine dello scritto: l’assenza di una classe dirigente disinteressata, capace di uscire dai limiti del proprio status, avida per questo di ricavarne i vantaggi della propria rendita di posizione sociale, priva della statura morale richiesta a chi invece dovrebbe porsi alla testa di un grande disegno politico: la riunificazione di un Paese diviso, l’attivazione di un rapporto fecondo con il popolo. In una parola, la costruzione della nazione.

Il carattere autoreferenziale della cultura italiana è all’origine della competizione, della rissa permanente, delle meschinità che caratterizzano i comportamenti dei dotti. Persino lo scrupolo di evitare la diffusione del testo, espresso nella lettera dedicatoria, viene motivato come una cautela necessaria per evitare che qualcuno non ne tragga motivo di lucro.

Hypercalypseos è senza dubbio un’opera politica, in senso forte. Sorretta da un’interpretazione originale della storia d’Italia, quella che vede nella divisione politica l’origine dei mali del Paese e nell’irresponsabilità delle classi colte al tempo stesso la causa e l’effetto di essa.

E’ ben noto che tra gli Italiani si fa mercato di risse. Questa lue ebbe origine al principio dall’emulazione dei municipi, ciascuno di essi fiorente della propria particolare libertà ma privi di forza militare e di un unico reggitore. Quando poi la gara degenerò in discordia, crebbe anche la malignità nelle lettere, quasi una conseguenza della servitù che si andava introducendo. Ora, infine, in questi ultimi diciotto anni, da quando la tua Bretagna professa di difendere i comuni diritti del genere umano, noi, nel frattempo “scontammo gli spergiuri del re corso” con il nostro sangue. Se siano stati i costumi della servitù a corrompere le lettere o viceversa, non lo saprei dire facilmente.

Un’opera politica composta nel primo scorcio del XIX secolo non può eludere il tema della lingua, questione fondamentale per la definizione dell’identità nazionale, secondo la fondamentale teorizzazione di Herder. Non c’è nazione senza una lingua comune, senza una lingua al tempo stesso capace di esprimersi nelle lettere e di essere compresa dal popolo. E’ lo stesso problema che, dopo pochi anni, si porrà Alessandro Manzoni, e anche le soluzioni saranno analoghe. Hypercalypseos è scritta in Latino, certo. Ma le traduzioni spurie che, nella finzione dello scrittore, sarebbero apparse qua e là, scontano la confusione esistente sul registro linguistico che meglio possa rappresentare l’italiano. La soluzione proposta è ben diversa.

Una grazia nativa sorge spontanea sulle labbra del popolo fiorentino. Sebbene i vocaboli siano di felice natura, tuttavia, perché splendano negli scritti, hanno bisogno di una scelta accurata e di una assidua meditazione da parte dello scrittore. Ma alcuni scrivono in modo tale che la nostra lingua non sembra la figlia primogenita della lingua romana,  sua erede ricchissima e libera grazie alla sua origine, ma sembra piuttosto bastarda, nata fuori tempo e sorella servile della lingua francese. Guastano l’abbondanza con la negligenza, trascurano di ripulirla dalle espressioni plebee oppure utilizzano espressioni ruffiane indirizzate a chi è avvezzo al francese, che viene millantata come lingua filosofica e universale.

 

                                                                                                                        Emilio Russo